Crisi della chimica a Brindisi: cosa non ha funzionato

INTERVENTO/ Industria sì, industria no: è un dibattito logoro, che dura a Brindisi da troppo tempo.  Vengono attribuiti all’industria, in particolare a quella chimica ed energetica tutti i mali di questa città. La realtà è più complessa. Prima dell’insediamento della grande industria chimica, alla fine degli anni ’50, Brindisi era una città ancora devastata dalla guerra, con miseri quartieri di baracche e alloggi di fortuna. Il porto aveva scarsi traffici, mancavano strade, ponti, fognature. L’arrivo di Montecatini fu  applaudito da tutti e salutato dalla stampa internazionale come “un evento straordinario” che avrebbe creato “una generazione di maestranze rotte alle tecniche più moderne” (Enterprise). Furono investiti in pochi anni 300 miliardi di lire, assunte oltre 5500 persone, costruite strade, ponti, interi villaggi residenziali. Il reddito medio per abitante registrò nel 1964 il “ più alto incremento rispetto alle novantadue province italiane: +35,9”. Il traffico portuale, sia di merci che di passeggeri, decollò e raggiunse livelli record. I servizi primari ( ospedale, scuole, trasporti, sistemi di raccolta dei rifiuti, ecc.) funzionavano forse meglio di oggi.

L’industria chimica fu certamente fonte d’inquinamento e pose vincoli eccessivi per lo sviluppo urbanistico della città, subiti da una classe politico-amministrativa maggiormente  interessata a scambiare favori  per alimentare  le proprie clientele. Il sindacato era troppo impegnato a battersi per il miglioramento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori. A tal fine sostenne dure lotte per l’abolizione delle gabbie salariali, la riduzione dell’orario del lavoro, il miglioramento degli inquadramenti professionali.

Agli inizi degli anni  ’80 arrivò comunque la più grave crisi della chimica nazionale. A Brindisi furono chiusi metà degli impianti di produzione, smembrato il petrolchimico, licenziati migliaia di lavoratori. Dopo Montedison, anche le altre grandi imprese a essa subentrate (EVC, DOW CHEMICAL) se ne andarono, senza preoccuparsi di bonificare i terreni che avevano a lungo utilizzato e inquinato. Restarono a Brindisi , oltre alle centrali elettriche, l’industria  aeronautica, quella farmaceutica e piccole aziende meccaniche indotte dal petrolchimico. Per conto loro entrarono in crisi le attività del porto, si rivelò  eccessivamente ambizioso,  e comunque mal perseguito, il sogno di una cittadella della ricerca, crebbe e si diffuse nel territorio provinciale la criminalità organizzata.

Era possible affrontare in modo diverso e più efficace la crisi della grande industria chimica? Riteniamo di sì.

Le imprese chimiche dovevano essere obbligate, prima di abbandonarle, a bonificare le aree occupate per decenni. Potevano essere maggiormente incentivate e sostenute iniziative industriali per la lavorazione delle materie plastiche, labor intensive  oltreché poco inquinanti perché impiegano materie inerti . L’industria di costruzioni aeronautiche, presente a Brindisi  dagli anni ’30 , doveva essere più efficacemente difesa .  Non fu poi mai  presa in considerazione la possibilità di incentivare e sviluppare una moderna agro-industria, capace di valorizzare le produzioni agricole del territorio. Last but not least, le aree lasciate libere dagli impianti del petrolchimico, già attrezzate e bonificate, potevano essere utilizzate per diverse  attività industriali o  servizi, come accaduto in altri siti nazionali ed europei .

In Germania, ad esempio,  negli  anni ‘80 è stato realizzato il piano di riconversione del Bacino della Ruhr, comprendente 6000 ettari di aree industriali dismesse. A Dortmund i minatori sono scomparsi ma la cokeria, uno dei luoghi di produzione siderurgica più inquinanti, dismessa nel 1992, è stata trasformata in un percorso museale. Duisburg, principale porto per il trasporto del carbone e dell’acciaio , è diventato un grande parco naturale.

In Spagna, a Bilbao, sommersa in passato dai fumi e dall’inquinamento, c’è stato uno straordinario processo di trasformazione. Nel 1997, mentre si esaurivano le miniere di ferro e la cantieristica navale emigrava nell’est asiatico è stato inaugurato il museo Guggenheim, che nel primo anno di attività ha attirato 100 mila visitatori.

Non mancano alcune valide iniziative anche in Italia. A Porto Torres, dove per decenni è stato in esercizio un petrolchimico grande come quello di Brindisi, è in atto un ambizioso progetto di riconversione industriale: diventerà il maggiore centro europeo per la produzione di bio-plastiche e bio-lubrificanti, con un investimento di 750 milioni di euro.

Per far qualcosa di simile doveva esserci a Brindisi una rappresentanza politico – amministrativa più coesa e lungimirante, capace di promuovere, programmare ed implementare negli ultimi tre decenni coerenti iniziative di sviluppo. Il dibattito politico-sociale, sotto la spinta ambientalistica, ha  preso  invece tutt’altra dicotomica direzione: industria sì, industria no.

Brindisi intanto continua a occupare le ultime posizioni nella classifica nazionale delle città più vivibili, la disoccupazione ha raggiunto livelli record, i servizi primari non funzionano, le gesta della micro-criminalità  riempiono le cronache  di ogni giorno.

Passeggiare sul lungomare è  certamente più piacevole che nel passato, ma è svago insufficiente per accrescere la fiducia nel futuro. Brindisi è una città “al lumicino”. Se anche saranno spente le ultime candele del petrolchimico, come chiedono in molti, non potrà essere  più buio.

Giuseppe Antonelli

1 Commento

  1. Esatto. E’ così, che piaccia o meno.Di chi la colpa? Lascio la risposta al popolo di Brindisi.

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