Brindisi si sveglio con un boato: il racconto dell’esplosione al Petrolchimico 43 anni dopo

BRINDISI-  Il 1977 non era iniziato male, almeno per me. Avevo lasciato la Sicurezza da tre anni, acquisito nuove competenze professionali, ero stato appena nominato Direttore del Centro di Formazione.

Le cose non andavano altrettanto bene per Montedison e per il petrolchimico di Brindisi. Eugenio Cefis aveva lasciato la presidenza Montedison al senatore Giuseppe Medici. La sua gestione, durata sei anni, era servita ad aumentare l’influenza dell’ENI nel più grande gruppo chimico privato. Montedison, per conto suo, aveva comunque infilato, tra la prima e seconda metà degli anni ’70, una serie di bilanci in rosso, fiaccata anche dalla crisi energetica esplosa nel 1974 a seguito della guerra lampo arabo-israeliana, con il conseguente vertiginoso aumento del costo del petrolio. La presenza di ENI nel capitale Montedison non rendeva quest’ultima del tutto autonoma. Le due società entravano spesso in concorrenza per l’assegnazione degli aiuti pubblici, che in anni ormai lontani erano stati invece abbondantemente elargiti a Montedison (compresi quelli per la costruzione del petrolchimico di Brindisi). L’arrivo alla presidenza di Medici, un politico di 70 anni, non aveva certamente migliorato le cose. Lo stabilimento di Brindisi usciva tuttavia da una fase di espansione. Non più tardi del 1974 l’amministratore delegato Montedison, ing. Alberto Grandi, aveva ipotizzato nuovi investimenti. L’occupazione aveva raggiunto i massimi livelli, con oltre 5200 dipendenti, ai quali si aggiungevano i 2500 delle imprese appaltatrici. Ma la musica all’inizio del 1977 stava cambiando. I sindacati chimici non avevano ancora preso pienamente coscienza di ciò e continuavano ad avanzare richieste salariali e altri miglioramenti.

In città le cose non andavano meglio.  A marzo scoppiò il problema più spinoso: 1000 dipendenti della SACA, da mesi senza stipendio, decisero di occupare gli uffici del comune, a “tempo indeterminato“ dichiararono. Chiedevano che EFIM accettasse l’offerta di vendita della società formulata dal proprietario, avvocato Marcello Indraccolo. Era una prassi negli anni della prima repubblica, che quando un’azienda privata medio-grande andava in crisi il sistema delle partecipazioni statali, pressato dai politici locali e nazionali, corresse in soccorso e la inglobasse nel suo già pesante carrozzone. La richiesta dell’avv. Indraccolo era però giudicata da EFIM esorbitante (30 miliardi di lire). Per questo l’occupazione del comune rischiava di andare avanti a lungo. Durò, infatti, fino a quando il tribunale di Brindisi dichiarò il fallimento della SACA per insolvenza. Il passaggio alla IAM, società del Gruppo EFIM, diventò così una prospettiva più concreta. Agli inizi di agosto i 1000 lavoratori ricevettero il 33% delle spettanze economiche maturate con SACA, il resto doveva essere liquidato a settembre. Nell’accordo, siglato dall’ing. Fascione, Presidente IAM, e dall’avv. Stefanelli, curatore fallimentare, si dichiarava inoltre che entro tre anni sarebbe stato realizzato a Brindisi un nuovo stabilimento aeronautico. Fu una positiva conclusione della vicenda e gran successo dei sindacati, efficacemente sostenuti nelle loro rivendicazioni dal sindaco Arina.

Superata la crisi della SACA, si profilò un’altra grave “vertenza”, quella delle imprese metalmeccaniche operanti nel petrolchimico. I loro sindacati avevano presentato una nutrita piattaforma di richieste economiche. Le imprese avevano risposto negativamente su tutta la linea, lasciando intendere che la colpa era di Montedison, che aveva ridotto le commesse di lavoro e tardava nei pagamenti. Spinti da ciò, o per autonoma decisione, non si capì bene, i metalmeccanici e gli edili prima occuparono i loro cantieri, poi marciarono sulla direzione Montedison. Erano armati di grosse latte di alluminio, che percossero a mo’ di tamburi per giornate intere. Senza averlo concordato con i sindacati chimici, misero picchetti ai cancelli dello stabilimento e bloccarono ripetutamente l’uscita delle merci. Da Foro Bonaparte partirono dure proteste e la minaccia di fermare l’intero petrolchimico. L’occupazione dei cantieri e le azioni di lotta dei lavoratori delle imprese appaltatrici proseguirono per tutto il mese di giugno.

Le cose non andavano bene neppure per i dipendenti di Montedison. Anche loro avevano presentato una piattaforma rivendicativa; chiedevano nuovi investimenti e assunzioni, ricollegandosi a vecchie promesse dell’amministrazione delegato Alberto Grandi.

Le situazioni di crisi erano quindi tante: Montedison riduceva le commesse e non manteneva gli impegni di nuovi investimenti; le imprese appaltatrici licenziavano; Lepetit chiedeva la cassa integrazione ordinaria per 170 dei suoi 200 dipendenti; Tubi Brindisi era in perenne difficoltà. Negli altri due maggiori settori produttivi le cose non andavano meglio: l’edilizia stentava e l’agricoltura era incapace di rinnovare e trasformare i suoi prodotti. Solo il porto resisteva, ma scoppiavano anche lì prime polemiche per il dirottamento di alcune navi di collegamento con la Grecia verso Bari. C’erano in altre parole abbastanza problemi per chiedere attraverso le amministrazioni locali un confronto urgente con il governo nazionale, sulla base di quella che fu definita la “vertenza Brindisi”.   A sostegno di questa vertenza, il 6 ottobre 1977 fu dichiarato uno sciopero generale. Un grande corteo, con 5000 lavoratori di tutte le categorie produttive, attraversò le principali vie della città. Alla fine Brindisi fu riconosciuta dal governo come “zona di crisi” e fu concessa la cassa integrazione speciale per tre mesi. Ai lavoratori delle imprese metalmeccaniche e edili fu fatto l’obbligo di partecipare a corsi di riqualificazione, prescrizione totalmente disattesa.

In questo contesto di problemi parzialmente risolti e altri emergenti la speranza di tutti era che l’anno 1977 si chiudesse al più presto. Purtroppo non fu così .

Alle ore 0,30 dell’8 dicembre 1977 l’intera città fu svegliata da un terribile boato, seguito da altri meno fragorosi. Lingue di fuoco illuminarono quella notte dell’Immacolata. Molti vetri andarono in frantumi. Nelle case fu ansia, sbigottimento, paura. Dalle terrazze gli sguardi di tutti volsero spontaneamente verso il petrolchimico: la cattedrale, come l’avevano definita ironicamente i pochi detrattori il giorno della posa della prima pietra, bruciava! Passarono alcuni minuti e l’aria fu lacerata dal suono di tante sirene.

 Antonio Ronca, a quel tempo capo della sicurezza impianti del petrolchimico, ricorda così le prime ore: “Fui svegliato dal tremendo boato, con conseguente rottura dei vetri di una finestra di casa. Abitavo al Villaggio S. Paolo. Mi resi subito conto dell’accaduto e mi precipitai in fabbrica. Per strada mi accorsi di essere quasi l’unico ad andare verso lo stabilimento; il traffico maggiore era dallo stabilimento verso Brindisi. Arrivato in portineria, trovai la camionetta del Servizio Antincendi; un pompiere mi disse che mancava l’acqua antincendio. Ci recammo insieme in sala pompe e le avviammo con l’unico operatore presente. Diedi immediate disposizioni alla portineria di allertare l’IP e l’Italsider di Taranto, con le quali avevano un piano di reciproca assistenza nel caso di disastri. Ci portammo poi sulla scena dell’incendio e assistemmo a un’altra esplosione. Anche il personale pompieristico era spaventato, ma ci facemmo forza e coraggio e cominciammo le operazioni di spegnimento. Sollecitai nel frattempo il centralinista a chiamare a raccolta tutti gli effettivi del servizio antincendio e i pompieri ausiliari di stabilimento. Arrivarono subito dopo i vigili del fuoco di città, con il loro comandante ing. Merolla. Decidemmo insieme come attaccare il fuoco. Cercammo innanzi tutto, di avvicinarci alla sala controllo ma invano. Ci informammo anche, attraverso un addetto alla sorveglianza, se gli operatori d’impianto avevano avuto il tempo di fuggire. Arrivarono nel frattempo altre forze antincendio che furono immediatamente spiegate in campo. Intercettammo tutte le valvole tra la zona media dell’impianto e quella fredda, che era in fiamme. In circa tre ore l’incendio era completamente sotto controllo, grazie anche al prezioso aiuto dei mezzi antincendio e degli uomini della S. Marco, della Marina Militare, dell’IP di Taranto, dell’Italsider, dei VVF di Lecce e Taranto. Ci fu comunicato che gli operatori dell’impianto risultavano tutti in salvo; ci sentimmo sollevati e presentii, ma il comandante dei VVF, ing. Merolla, continuava a dirmi che nei pressi della sala controllo aveva sentito odore di carne bruciata. Gli risposi che forse poteva trattarsi di qualche animale. Alle sei, quando tutto sembrava procedere per il meglio, giunse la notizia che al controllo mancavano tre operatori. Fu per tutti noi una tremenda mazzata. Con l’ing. Merolla e il geom. Antonio Cafiero, capo dell’antincendio di stabilimento, cominciammo nuovamente la ricerca entrando in sala controllo. Scoprimmo infine che tre corpi giacevano, parzialmente coperti sotto i quadri elettrici, un’immagine terribile…”.

La zona fredda del P2T fu interamente distrutta, molte strutture civili all’interno dello stabilimento rimasero seriamente danneggiate, compresa la palazzina direzione. I danni furono valutati in 400 miliardi di lire. Alle operazioni antincendio parteciparono: 35 pompieri di fabbrica, 28 uomini dei VVF di Brindisi, 12 della marina militare, 7 dei VVF di Lecce, 10 dell’aeronautica militare, 2 dell’Enel, 4 della IP, 7 della Italsider di Taranto, 6 del VVF di Taranto, per un totale di 111 uomini e 28 automezzi antincendio. I feriti ricoverati in ospedale furono 52, altri 110 lavoratori subirono danni meno gravi.

Nei giorni precedenti l’esplosione erano stati eseguiti nel reparto P2T lavori di manutenzione straordinaria, che non avevano comportato modifiche impiantistiche né evidenziato anomalie di rilievo a seguito dei controlli ispettivi e degli esami non distruttivi sui materiali. La commissione d’inchiesta confermò che nella notte dell’8 dicembre si era verificata una fuga di prodotto infiammabile (propilene), che dopo circa 3 minuti aveva causato l’ esplosione, con effetti pari a 15 tonnellate di tritolo.

Per il crollo della sala quadri persero la vita: Carlo Greco (47 anni), Giuseppe Marulli (34 anni) e Giovanni Palizzotto (23 anni). Il procuratore della repubblica, dott. Riccardo Di Bitonto, dichiarò che “i tre lavoratori si erano sacrificati nel disperato tentativo di mettere in sicurezza l’impianto”.

Alcuni operatori P2T presenti quella notte nel normale turno di lavoro riferirono: “Lo scoppio fu preceduto da un rumore secco, come il cedimento meccanico di una tubazione, nella zona fredda. Accorsi immediatamente in quella zona osservammo un getto liquido che si trasformava in una densa nube bianca che avanzava in direzione dei forni della zona calda fino a innescarsi con la conseguente esplosione”.

Le indagini confermarono che il propilene era fuoriuscito per la rottura della contro-flangia di una tubazione che lo convogliava a uno scambiatore. Si tentò di spiegare la rottura con il cedimento di un materiale suscettibile alla bassa temperatura e un probabile fenomeno microscopico d’invecchiamento impiantistico, vizio imprevedibile e incontrollabile in fase di esercizio dell’impianto .

Dopo lo scoppio accorsero in stabilimento centinaia di lavoratori, nonostante gli incendi ancora in atto e il blocco della circolazione nelle strade di accesso alla zona industriale. Arrivarono anche i segretari confederali (Landella, Di Pietrangelo, Caramia) e quelli dei chimici (Sciscio, Saponaro, Pacifico). Il giorno successivo giunse il presidente della Montedison, senatore Giuseppe Medici. Affiancato del direttore di stabilimento ing. Ceriani ebbe un incontro con i sindacati e i quadri di stabilimento nella grande sala riunioni al quarto piano della palazzina direzione, che aveva tutti i vetri infranti ed era esposta quel giorno a forti venti di tramontana. C’ero anch’io. Ebbi quasi un moto di compassione per quell’anziano uomo, posto alla presidenza di Montedison per restarvi solo qualche mese, che era lì, a capo scoperto, sferzato come noi tutti da venti gelidi, a riflettere su un’immane tragedia. Medici assicurò comunque che il P2T sarebbe stato ricostruito, una promessa quasi scontata in un momento di così grande sgomento e commozione, che doveva tuttavia incontrare negli anni successivi mille ostacoli per essere rispettata. Il sindaco di Brindisi, Francesco Arina, proclamò un giorno di lutto cittadino. Ai solenni funerali, celebrati dal vescovo, monsignor Settimio Todisco, parteciparono migliaia di persone e tutti i lavoratori chimici, con i loro elmetti gialli. Il corteo attraversò in silenzio i corsi principali. L’esplosione del P2T fu per diversi giorni nei titoli di apertura dei telegiornali e dei quotidiani, non solo italiani. Nella cattedrale, sfregiata, era sceso un drammatico silenzio. Non ci perdemmo però d’animo. Con pale, bidoni, carrelli, cominciammo a eliminare le macerie. Eravamo tutti pienamente consapevoli che la distruzione del cracking avrebbe aperto una lunga stagione di dolori. E così fu.

In città non mancarono le polemiche. Iniziò Antonio Leo, un ingegnere che aveva lavorato nel petrolchimico e si era dimesso pochi mesi prima. Scrisse una lettera alla Gazzetta del Mezzogiorno, che titolò: “Una bomba sotto il cuscino”. Affermava che eventi catastrofici come quello del P2T erano prevedibili e che l’esplosione avrebbe potuto produrre danni ancor più gravi per l’intera città di Brindisi. Gli risposero sullo stesso giornale 11 ingegneri in servizio nello stabilimento, definendo le sue accuse “ superficiali e improntate a pressapochismo, perché l’incidente è stato circoscritto al solo impianto di cracking e non poteva provocare gravi danni alla città, distante 5 chilometri dal petrolchimico”.

Polemiche a parte, il disastro del P2T indusse Montedison e altre industrie a modificare radicalmente gli standard costruttivi degli impianti nei quali potevano essere convogliati quantitativi massicci di sostanze infiammabili. Sarebbe troppo lungo elencare tutte le innovazioni.  Ricorderò solo le più importanti, segnalatemi da Antonio Ronca. Le “sale controllo” dovevano in futuro essere posizionate sopravento all’impianto e costruite in cemento armato per resistere ai picchi di sovrappressione in caso di esplosioni, incendi, radiazione termica; ciò sia per garantire l’incolumità degli operatori che per la gestione in sicurezza dell’emergenza stessa. L’intera area dell’impianto doveva essere monitorata con rivelatori di gas automatici e allarme in sala controllo. Idonee barriere di vapore e acqua dovevano essere predisposte per essere prontamente azionate allo scopo di diluire eventuali perdite di fluidi pericolosi ed evitare inneschi da parte di apparecchiature calde presenti, come i forni.

L’organizzazione e la formazione del personale dovevano infine prevedere piani di emergenza interni ed esterni per le diverse ipotesi d’incidenti e le risorse necessarie, sia in termini di attrezzature che di uomini.

Il petrolchimico rimase completamente fermo per due settimane, poi iniziarono i lavori per la rimessa in marcia di due vecchi impianti di cracking, il P2X e P2R; più in là furono riattivati anche i forni del P2T rimasti intatti anche dopo l’esplosione. Passò però solo un mese e furono preannunciati i primi licenziamenti del personale delle imprese. Iniziò la Sartori con 145 lavoratori, come prima tranche di un programma di riduzione di oltre 400. Furono proclamate numerose ore di sciopero. Dopo un incontro a Roma i segretari confederali riuscirono ad ottenere per tutti la cassa integrazione straordinaria.

 A fine gennaio 1978 si iniziò a parlare di un nuovo impianto cracking. Il senatore Medici scrisse al Presidente della Regione Puglia, avv. Nicola Rotolo, confermando la volontà Montedison di ricostruire l’impianto distrutto. Per la realizzazione dell’opera – aggiunse – occorrevano però 80 – 100 miliardi, che Montedison non aveva. Bisognava pertanto sollecitare tutti insieme un finanziamento pubblico da far approvare al CIPI, facendo passare la ricostruzione del P2T come nuovo investimento e non sostituzione di un impianto andato distrutto. Dalla data di approvazione governativa dei finanziamenti – concludeva Medici – ci sarebbero voluti almeno 30 mesi per completare la costruzione, nel frattempo, anticipava, sarebbe stato necessario porre 750 persone in cassa integrazione.

A febbraio 1978 furono realmente messi in cassa integrazione ordinaria i primi 487 dipendenti Montedison. Con un comunicato la società assicurò tuttavia che il nuovo impianto di cracking era in fase di progettazione e avrebbe avuto una capacità annua di 300.000 tonnellate (il vecchio P2T ne produceva solo 200.000).

 Il rapimento dell’onorevole Aldo Moro, avvenuto nel marzo 1978 ad  opera delle brigate rosse, con la barbara uccisione della sua scorta, aprì un lungo periodo di crisi politico-istituzionale e dei provvedimenti straordinari per la ricostruzione del P2T non si parlò fino a luglio quando, in un incontro a Roma con i sindacati provinciali e nazionali, Montedison s’impegnò a presentare entro settembre al ministero del bilancio la documentazione per ottenere l’autorizzazione del CIPI alla costruzione di un impianto di cracking.  Il 26 ottobre 1978 una nuova doccia fredda: il senatore Grassini, relatore della commissione per la ristrutturazione e riconversione industriale, dichiarò di essere contrario, sia pure titolo personale, alla ricostruzione dell’impianto P2T di Brindisi. Donat Cattin, responsabile nazionale per i problemi economici della Dc, e il ministro Ferrari Aggradi, confermarono invece l’impegno DC a inserire il finanziamento per la ricostruzione del P2T in uno dei piani settoriali di ristrutturazione e riconversione industriale.

Si giunse così commemorare il primo anniversario della catastrofe l’8 dicembre 1978 senza che vi fosse nulla di deciso. Ci sarebbero voluti molti anni prima che la costruzione del nuovo Cracking fosse messa in cantiere. Alla fine degli anni ’70 a Brindisi la crisi produttiva e occupazionale era sempre più grave. Il “deserto” avanzava e per la prima volta oltrepassava le mura della “cattedrale” .

 Giuseppe Antonelli, ex dipendente Petrolchimico

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